- Relazioni Omaggio a Petrarca, II^ ed 2013 -
Annamaria Vanalesti *
La
rimembranza in Petrarca…”Dolce nella memoria”
“Da be’ rami scendea,/ dolce nella memoria,/ una
pioggia di fior sovra ‘l suo grembo/ ed ella si sedea,/ umìle in tanta gloria,/
coverta già dell’amoroso nembo”. In questi versi c’è una sublime rappresentazione
della donna, il trionfo della bellezza, pari solo a uno dei trionfi pittorici botticelliani. Ma ciò che
più conta e sorprende, è quella dichiarazione, quasi in sordina, dolce nella memoria che oltre a rivelare la ripresa indiretta della
sequenza, ne scopre il motivo portante
cioè la memoria, che fa da tramite,
sempre, nella poesia petrarchesca, tra lo stato emozionale e le immagini.
La “rimembranza”,
per usare un termine del Petrarca, è filtro assoluto, velame necessario, lente
inelusibile, per sottrarre al passato i ricordi che si vogliono celebrare, consacrandoli
all’immortalità.
Il poeta scoprì quanto e come la memoria fosse
fondamento della poesia, indispensabile per spogliare le cose di una loro
quotidiana vicinanza e consegnarle ad una dimensione extratemporale, capace di
“eternare”ogni oggetto cantato. Dante
era proiettato nella sua
visionarietà del futuro e dell’elemento profetico, Petrarca si proietta nel suo
passato e lo rielabora attraverso la memoria, per riconoscervi la sua vita e
ricomporla in una ideale traiettoria di formazione spirituale e letteraria,
dominata dalla ricerca della purezza e del bello. Si spiega perché la sua
scelta verbale ricada di solito sull’imperfetto o sul passato remoto, i due
tempi che servono a fermare e ad isolare le scene. Tutto il Canzoniere ne è testimone, a cominciare dal sonetto iniziale
“Voi ch’ascoltate in rime sparse /il
suono di quei sospiri ond’io nudriva il core/ in sul mio primo giovenile
errore/ quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono”.
Nudriva,
era , sono imperfetti che segnano un immediato distacco tra la condizione
attuale del poeta e quella del passato, che egli vuole raccontare, perché
è il racconto la misura del suo canto, essendo in lui
intrinseca la disposizione a narrare, in versi, la propria storia, la propria
vicenda interiore, rendendola unica, e fermandola per sempre. Per altro, il
prodigio di questa operazione, da lui
compiuta, che altro non è se non un’alta operazione stilistica, realizzata attraverso
una straordinaria padronanza della lingua, consiste essenzialmente nel produrre
un notevole effetto di rasserenamento sull’animo del poeta, una dissoluzione lirica delle angosce che lo attanagliavano, in sostanza quella “dolcezza” a cui il poeta stesso allude
nei versi citati della sua celeberrima
canzone, quando dichiara che il ricordare è dolce. Secoli più tardi, il più
grande erede della lirica petrarchesca, Leopardi, avrebbe provato ed espresso
lo stesso sentimento, eleggendo anch’egli la “ricordanza” ( con una leggera
trasformazione del termine rispetto a “rimembranza”) come condizione essenziale
della poesia e facendo del “caro immaginar” non una vana fantasticheria, ma un
costante recupero di momenti e situazioni del passato, “ancorché tristi”, teorizzando e mettendo in pratica l’azione poetica della memoria che Petrarca
aveva scoperto.
Non v’è dubbio
che il Canzoniere sia intessuto di
memorie: il primo incontro con Laura, le fasi dell’innamoramento, la bellezza
di lei disvelata in vari momenti, la guerra d’amore, le sconfitte, gli affanni
e la solitudine, la morte di lei e tanti altri eventi. Sono la materia stessa
della poesia e di questo lungo e complesso diario, che mentre ricostruisce il
cammino dell’uomo, ne segna la formazione poetica e la maturazione dello stile.
Ma quali sono
le tipologie della rimembranza in Petrarca ? E come si manifesta? E’ una
memoria volontaria o involontaria, per dirla con Proust? Per rispondere a queste domande, bisogna entrare
nel laboratorio del Canzoniere,
richiamarne le origini e capirne le fasi di composizione.
Prima di tutto occorre tener presente che la
poesia petrarchesca non ha mai uno sfondo realistico, anzi è quasi priva
totalmente di particolari realistici, perché anche quando il poeta accenna ad
elementi fisici, come gli occhi, i capelli, le vesti di Laura, le descrizioni
sono sempre evanescenti e potremmo dire che fanno parte di un repertorio
consueto e frequente in tutta la poesia anteriore provenzale e siciliana. Gli
eventi poi, malattie, morti, scontri storici tra illustri famiglie, viaggi o
altro, sono anch’essi rievocati con uno sguardo d’insieme, che non puntualizza
mai alcun dato preciso e temporale e che appare solo come una patina
realistica, appena sfiorata. Che posto ha dunque la memoria in tutto ciò? Non è
una rievocazione del vissuto, nonostante possa sembrare paradossale tale
affermazione. Del resto, del vissuto del Petrarca non possiamo mai essere
certi; di Laura non abbiamo che pochi riferimenti assai dubbi ( il suo
matrimonio con Ugo De Sade, il suo probabile cognome De Noves, l’incontro del 6
aprile 1327 nella chiesa di S.Chiara in
Avignone), non sappiamo però chi ella fosse realmente, né conosciamo la sua
vicenda personale e tutto quello che egli ci dice di lei è frutto di una
continua trasfigurazione lirica, che ben poco ha a che vedere con la realtà.
Eppure il poeta ci fa credere che ogni indizio sia vero ed effettivamente
accaduto, porgendocelo come un ricordo, una memoria. Né mente del tutto, perché la memoria che
egli cerca di trasmettere, appartiene al suo pensiero, alla sua immaginazione,
al suo desiderio di vedere o rivedere i momenti che ha desiderato fortemente di
vivere.
Prendiamo per
esempio il sonetto III Era il giorno
ch’al sol si scoloraro , che è l’inizio della sua storia amorosa, nonché
l’inizio di quel diario di vita che è il Canzoniere.
Tutto è cominciato da quell’incontro, avvenuto nel venerdì santo, nel momento
più sbagliato in cui potesse capitare, nell’occasione meno adatta ad un
innamoramento, ma che proprio per questo si ammantò di auspici nefasti e
costituì, sin dal primo istante, motivo di vergogna e disappunto del poeta con
se stesso. Lasciarsi adescare dalla bellezza femminile nel giorno in cui
avrebbe dovuto solo concentrarsi sulla morte del Cristo, certo non fu motivo di
onore e vanto per il suo animo cristiano. Ma non è questo che a noi interessa,
quanto piuttosto l’andamento della lirica che ad ogni verso si propone come una
rimembranza, la rievocazione di un
evento, nelle sue varie fasi in retrospettiva: il grigiore del cielo e la
scarsa luce contrapposta allo splendore degli occhi della donna, la
disposizione d’animo alla tristezza e al pianto, l’improvvisa folgorazione
dell’amore, che lo trovò “disarmato”. E’ una rievocazione in piena regola, perché
come tale ce l’ha tramandata il poeta, anche se rimangono infiniti dubbi sul
piano reale. Si tratta però di una memoria “volontaria”, che non trasale
spontanea nella mente dell’autore, ma s’inserisce come voluta, nell’iter
dell’opera, nel punto giusto e opportuno. Ugualmente possiamo dimostrare che il
sonetto XC Erano i capei d’oro a l’aura
sparsi ripropone la sequenza di un incontro (non necessariamente il primo)
nel quale si conferma l’innamoramento come un graduale incanto da parte
dell’uomo di fronte alla bellezza della donna amata. I biondi capelli sparsi
all’aura (incredibile artificio, splendidamente riuscito, di vagheggiare e
confondere il nome della donna con la natura), gli occhi luminosi, il rossore
del viso, la nobiltà del portamento, la dolcezza della voce, sono elementi di
straordinaria eleganza, che non appartengono ad un’attualità reale, ma ad una
memoria imposta, cercata e fatta propria, attraverso il sottilissimo ordito
della poesia che ogni cosa sa mutare in autentica. La tecnica petrarchesca è
raffinata e complessa: giocando su una rimembranza assai vaga e fantastica, la
cui esigenza nasce da un’intima disposizione ad unificare e fondere la natura
esterna con i personaggi e le presenze della sua vita vera, egli riesce a
creare inquadrature sospese tra realtà e finzione, ferme per sempre nel tempo.
Fatto essenziale della rimembranza del Petrarca
è la mancanza di fondamento reale (dato completamente diverso nella
“ricordanza” leopardiana); secondo aspetto importante è la volontarietà del
ricordo, che esclude ogni spontaneità e in qualche modo ogni emotività e,
infatti, sarebbe inesatto pensare che quelle rievocazioni, anche quando siano
di momenti dolorosi, provochino nel poeta sofferenza. Ogni dolorosa sensazione
è come rimossa, sebbene venga raccontata o dichiarata; ogni stato di sofferenza
è eluso e allontanato per far interamente posto all’effetto suggestivo e
rasserenante della poesia. Lo stesso potremmo dire della supposta sensualità
del Petrarca, assolutamente velata e appena accennata, anche quando si fa cenno
alle grazie corporee di Laura. Mai il poeta si abbandona alla carnalità, mai
traspare nei suoi versi perfetti, un ristagno di sensualismo insoddisfatto, benché
il poeta sia un eterno insoddisfatto e lamenti un perenne dissidio interiore
tra spirito e carne, tra il terreno e il divino. La sensualità è rarefatta e
sottintesa, perché mancano sensazioni tattili e olfattive e se appaiono
sensazioni visive, sono comunque assai sfumate ed inserite in un contesto
generale che rimanda ai consueti repertori della poesia amorosa e
paesaggistica.
Ma tornando
alla rimembranza e alla sua funzione, le ragioni di essa si trovano anche nell’elaborazione
del Canzoniere, non dimentichiamo che
l’opera, composta lentamente e occasionalmente, in forma di rime sparse e senza il fine di una destinazione
culturale, quasi per sfogo e
consolazione privata, divenne solo in un secondo momento un’opera vera e
propria con intenti di divulgazione, quando il poeta prese coscienza delle sue
possibilità liriche e comprese che anche le sue canzoni e i suoi sonetti
potevano fargli raggiungere quei traguardi di gloria a cui aspirava e ai quali
aveva pensato che potessero condurlo le
opere erudite in latino. Il lavoro, quindi, nacque come una rielaborazione
delle rime sparse, un’operazione non tanto di riscrittura, quanto di ordine
delle liriche composte in vari tempi, ordine che comportò per il poeta un percorso
all’indietro, della sua vita, un viaggio nell’io, per ricomporre le tessere di
un puzzle spirituale confuso, alla ricerca dell’equilibrio interiore che gli
era sempre mancato, tra i due poli opposti della sua anima, ansia di
religiosità e trasporto verso le cose terrene e carnali. Il motivo
catalizzatore di questa azione di unificazione e di ordine, che avrebbe anche
costituito il filo conduttore della forma diaristica del Canzoniere divenne l’amore, centro tematico di tutta l’ispirazione
poetica del Petrarca, anche quando i contenuti specifici di una composizione
sono di altra natura, perché è l’amore che segna le tappe della sua esistenza,
la sua formazione umana e letteraria e nell’amore si riassume e si concentra
ogni altro significato doloroso della condizione umana. L’amore si presentò
come eterna sofferenza, come signore e guida della vita, come inappagato
desiderio di bellezza e perenne insoddisfazione. Né fu necessariamente l’amore
per Laura la fonte dei suoi lamenti, ma piuttosto l’amore in generale come
centro di ogni delusione umana, di ogni irraggiungibile ideale; nell’amore, in
definitiva, si proiettava il destino personale del poeta, ma anche il destino
degli uomini, a conferma che ordinando il suo Rerum vulgarium fragmenta ( titolo primo e autentico del Canzoniere), Petrarca intendeva sì
compiere un cammino individuale dalla terra al cielo, dall’umano al divino, ma
intendeva anche farlo compiere e additarlo a tutti i lettori. La maniacale
ricerca dell’ordine e dell’unità in ogni opera da lui scritta nasceva da
un’intima esigenza di dare organicità ad una materia assai complessa come la
sua storia intima e ciò spiega il laborioso e lungo lavoro di correzione, di
revisione, di ordinamento, che ci fu dietro ogni scritto, a cominciare dallo
sforzo di inserire le rime sparse in unico corpus,
alla cui edizione giunse dopo almeno quattro tentativi o esempi, che
testimoniano i vari stadi attraverso i quali è passata la raccolta, prima di
pervenire alla forma definitiva, che è quella fornitaci dal codice Vaticano
3195, di 366 componimenti, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate
e 4 madrigali. L’organizzazione del corpus
rispondeva all’aspettativa primaria del Petrarca di realizzare la perfezione stilistica
e ottenere la gloria, ma rispondeva anche alla volontà precisa di tracciare la storia di un’anima, il cui
faro guida restava in ogni caso l’amore, unico “nocchiero” della sua nave.
Fatte tali premesse, circa la costruzione e il riordinamento del Canzoniere, non ci si può stupire che a dirigere l’orchestrazione
dell’opera sia stato il ricordo, una memoria persistente del passato, sia pure
deprivata dei dati reali e restituita in modo ideale dalla poesia, miracolo che soltanto un geniale poeta poteva
operare. Da questa idealizzazione dei ricordi dipende la qualità propria della rimembranza del Petrarca e deriva il fatto che leggendo alcune liriche,
nemmeno ci si accorge che l’autore sta ricordando, se non da qualche raro accenno
indiretto, che qui esemplifichiamo: “gentil
ramo ove piacque,/ con sospir mi rimembra,/
a lei di fare al bel fianco colonna”, oppure la già ricordata
citazione “dolce nella memoria”(canzone
CXXVI); o “il rimembrar e l’aspettar m’accora”
(sonetto CCLXXII) verso che è un’ aperta dichiarazione di memoria in corso,
seguita poco più avanti, nello stesso bellissimo sonetto, da un’altra
emblematica affermazione “ tornami avanti
s’alcun dolce mai” , dove possiamo notare l’esattezza di quel verbo tornami, così allusivo delle fasi dell’immaginare e del ricordare. Rileggiamo
questa raffinatissima lirica:
La vita fugge
e non s’arresta un’ora
e la morte
vien dietro a gran giornate
e le cose
presenti e le passate
mi danno
guerra, e le future ancora;
e il
rimembrare e l’aspettar m’accora
or quindi or
quindi, sì che in veritate,
se non ch’i ò
di me stesso pietate
i’sarei già di
questi pensier fora.
Tornami avanti
s’alcun dolce mai
ebbe ‘l cor
tristo, e poi da l’altra parte
veggio al mio
navigar turbati i venti:
veggio fortuna
in porto, e stanco omai
il mio
nocchier, e rotte arbore e sarte,
e i lumi bei
che mirar soglio, spenti.
Il tema della
precarietà della vita, che qui domina, è centrale nel Canzoniere, perché riassume in pieno la condizione del poeta,
sempre in bilico tra il passato, il presente e il futuro, sempre sbilanciato
tra il ricordo e una vana attesa dell’amore e infine sempre proteso in un esame
di se stesso e della sua vita, per verificare se mai
abbia avuto una tregua l’infelicità del cuore. Ma l’aspettativa non è di un
approdo sereno, bensì di una tempesta che lo farà soccombere. Mette ben in
evidenza, questo sonetto, la tecnica della “rimembranza”, mai disgiunta
dall’attesa, sia pure scoraggiata e
presaga di sconfitte. C’è in ogni caso nelle liriche del Canzoniere una circolarità di temi, frequentati con assiduità,
quasi con ostinazione: la precarietà, il divenire, la morte, la vecchiaia,
vista come lo spegnersi della bellezza e
della luce, motivi tutti che producono nell’uomo la pietà di sé, quindi dolore
e lagrime. Potremmo dire che si tratta di topoi
della poesia amorosa, dalla provenzale alla siciliana e toscana, ma in Petrarca
diventano singolari e originali, acquistano un valore aggiunto, che li rende
inconfondibilmente unici e propriamente petrarcheschi.
La memoria e
il ricordo trovano la loro esatta controparte stranamente
nell’oblio, altro termine ricorrente nella lingua del Nostro. Si tratta di un
oblio a volte desiderato, a volte traboccante dalla sofferenza, mai spontaneo
e, di solito, cercato. Pensiamo alla metafora della vita espressa da quella
nave del sonetto CLXXXIX che passa colma
d’oblio, per aspro mare, a mezza notte, il verno (immagine di cui si
ricordò Leopardi in Aspasia, v.108), o pensiamo ai versi tener fiso/ posso al primo pensier la mente vaga/ e mirar lei et obliar
me stesso della canzone CXXIX ( meglio nota dal suo incipit Di pensier in pensier, di monte in monte)
e subito comprenderemo che cosa è l’oblio in Petrarca.
L’oblio è non solo la dimenticanza di sé, ma è
l’abbandono completo dei sensi, una sorta di delirio, che allontana dal mondo
circostante l’uomo, per condurlo ad un unico termine di contemplazione,
l’amore., quell’amore che fa dire al poeta, nella canzone appena citata, sento Amor sì da presso/ che del suo proprio error l’alma s’appaga. La
rimembranza ha come polo opposto l’oblio e paradossalmente l’uno si compenetra
nell’altra, perché non c’è memoria senza che la mente innamorata non dimentichi
tutto il resto, e anche se medesima, per votarsi interamente all’amore, e non
c’è oblio senza che la memoria si concentri sul solo motivo dell’amore. Si
legga il passo che mostra come l’amante infaticabile lasci che l’amore guidi l’anima
sbigottita, disposta ad acquietarsi soltanto nella natura, en plein air:
Di pensier in
pensier, di monte in monte
mi guida Amor,
ch’ogni segnato calle
provo
contrario a la tranquilla vita.
Se in
solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ‘fra duo
poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta
l’alma sbigottita;
E ancora si
legga il sonetto che descrive la guerra
d’amore del poeta, combattuta tra il ricordo e l’oblio:
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro
mare, a mezza notte, il verno,
enfra Scilla e
Caribdi; at al governo
siede il
signore, anzi il nimico mio;
a ciascun remo
un penser pronto e rio
che la
tempesta e ‘l fin par, ch’abbi a scherno;
la vela rompe
un vento umido, eterno
di sospir, di
speranze e di desio;
pioggia di
lagrimar, nebbia di sdegni
bagna e
rallenta le già stanche sarte,
che son
d’error con ignoranza attorto.
Celansi i duo
mei dolci usati segni;
morta fra l’onda
è la ragion e l’arte:
tal ch’i’
‘comincio a desperar del porto.
Si osservi
come l’intera lirica sia dominata dalla tecnica dell’accumulo, che contribuisce
a creare un effetto di esasperazione dello stato d’animo e di incontrollata
condizione emotiva, mentre in verità il poeta controlla perfettamente ogni
vocabolo, ogni palpito e ogni espressione.
Sono questi i
momenti prodigiosi della poesia petrarchesca, apparentemente coinvolta da
elementi e vicende contingenti, più o meno di natura dolorosa, eppure così
fieramente distaccata, da qualsiasi dato quotidiano e reale. La rimembranza
rafforza l’oblio di sé e l’oblio di sé accende la rimembranza della donna
amata.
Altra
testimonianza offrono i versi ispirati dalla pura memoria della bellezza, del sonetto CLIX ( In qual
parte del ciel, in quale idea):
Per divina
bellezza indarno mira,
chi gli occhi
de costei già mai non vide,
come
soavemente ella gli gira;
non sa come
Amor sana e come ancide
chi non sa
come dolce ella sospira
e come dolce
parla e dolce ride.
Il poeta
ricorda alcuni particolari della bellezza di Laura, il suo modo soave di
volgere lo sguardo, il dolce sospirare,
la dolcezza nel parlare e nel ridere, e
nonostante sia evidente la citazione di Orazio (Ode I dulce ridentem Lalagen amabo, dulce loquentem) riesce a comporre un
disegno personalissimo e stilisticamente
inconfondibile.
Ma per tornare
al laboratorio del Canzoniere, alle sue
finalità e al suo itinerario, non possiamo concludere questa digressione senza sottolineare
che il Petrarca inizia ad ordinare l’opera e la termina con la convinzione
d’aver fallito il proprio scopo, di non aver compiuto quel percorso salvifico
dalla terra al cielo che avrebbe voluto, perché come nel I sonetto introduttivo
(Voi ch’ascoltate) dichiara di
rendersi conto di aver vaneggiato e di vergognarsi e pentirsi, così in uno
degli ultimi sonetti (CCCLXIV) afferma che dopo essere stato per ventun anni prigioniero
dell’amore, è pentito degli anni spesi in tal modo. Confrontiamo le due
composizioni:
Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono
Di quei
sospiri ond’io nutriva il core
In sul mio
primo giovanile errore
Quand’era in
parte altr’uom da quel ch’i sono:
del vario
stile in ch’io piango e ragiono,
fra le vane
speranze e ‘l van dolore,
ove sia che
per prova intenda amore,
spero trovar
pietà, non che perdono.
Ma ben veggio
or sì come al popol tutto
favola fui
gran tempo, onde sovente
di me medesimo meco mi vergogno,
e del mio
vaneggiar vergogna è il frutto
e ‘l pentersi,
e conoscer chiaramente
che quanto
piace al mondo è breve sogno.
La condizione
di fondo è di spietata critica verso se stesso, sia per il tempo speso nel
vaneggiare dietro un amore irraggiungibile che ha caratterizzato la sua
giovinezza, bollata come “errore” totale, sia per lo stile “ vario” in cui ha
espresso il suo pianto e i suoi sospiri. Il poeta, in sostanza, qui si mostra
scontento di tutto, della vita e della misura stilistica realizzata, non
conforme alla sua ambizione di produrre uno stile unitario, omogeneo,
equilibrato e non certamente “vario” come invece gli appare il proprio. Inoltre
qui si parla di vergogna, di vaneggiamenti, di pentimento, per poi arrivare
all’affermazione finale, pregna di senso di precarietà, quanto piace al mondo è breve sogno, in cui c’è lo spirito
petrarchesco più vero, la sua autentica concezione della vita e la sua
impotenza a realizzare il fine proposto, vale a dire il raggiungimento del
cielo e del divino. L’itinerariun mentis
in Deum, che era stato tanto naturale
per Dante, per Petrarca fu impossibile, per la natura stessa del mondo e
dell’uomo, misera, caduca e illusoria.
Non è distante
dal tono di questa lirica, il sonetto CCCLXIV a cui abbiamo accennato:
Tenemmi Amor
anni ventuno ardendo
lieto nel foco
e nel duol pien di speme;
poi che
madonna e ‘l mio cor seco inseme
saliro al
ciel, dieci altri anni piangendo;
omai son
stanco e mia vita reprendo
di tanto
error, che di vertute il seme
à quasi
spento, e le mie parti estreme,
alto Dio, a te
devotamente rendo,
pentito e
tristo de’ miei spesi anni;
che spender si
deviano in miglior uso,
in cercar pace
ed in fuggir affanni.
Signor, che
‘questo carcer m’ài rinchiuso
tramene salvo
da li eterni danni,
ch’i conosco
‘l mio fallo e non lo scuso.
E’ un’altra
condanna della sua vita, spesa dietro all’amore inutilmente, ora più che mai
deprecabile, perché la morte della donna amata ha definitivamente vanificato le
sofferenze di tanti anni, spesi nell’errore. Torna quindi il pentimento e
l’unico spiraglio di fede che rimane al poeta lo induce a rimettersi al perdono
di Dio, ma non si creda che questo sia un atto di fede tout court, sebbene alla sua base ci sia una volontà precisa, è
piuttosto un abbandono momentaneo, simile a quello che caratterizza le
motivazioni della Canzone alla Vergine,
che chiude il Canzoniere, intrisa di
sentimenti di pietà e di buoni propositi, quali si addicono ad un devoto
infedele, perennemente in guerra con se stesso. L’invocazione alla madre di
Dio, perché soccorra alla sua “guerra” (v. 12), e ponga fine all’ implacabile
dissidio interiore che non gli ha dato mai tregua, è ancora una volta un atto
di auto accusa, ma anche di auto compianto:
Da poi ch’i
nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or
questa ed or quell’altra parte,
non è stata
mia vita altro ch’affanno;
mortal
bellezza, atti e parole m’anno
tutta
ingombrata l’alma.
L’allusione
all’“ingombro” dell’anima, è quanto di più preciso potesse dire il poeta
riguardo al suo stato e alla sensazione di peso e di fastidio che lo ha
contraddistinto per tutta la durata della sua infelice storia amorosa. Ormai la
rimembranza non lo aiuta, né lo sostiene, ogni ricordo è svaporato, cancellato
dal presentimento della morte (sol morte
n’aspetta ,v.91……il dì s’appressa e
non pote esser lunge, v.131),
persino l’oblio non c’è più.
Resta la
certezza della fugacità della vita e del tempo ( sì corre il tempo e vola, v.132), che fu e si conferma il tema più
autentico del Petrarca, il tema che fece di lui un poeta moderno.
*Anna Maria
Vanalesti, critico letterario, è stata dirigente scolastico. E' autrice di una importante Storia della Letteratura Italiana. E' Presidente dell'Associazione Culturale di Ostia Lido "Il leggio del mare".