Pubblichiamo l'intervento che ci ha gentilmente inviato il prof. Rino Malinconico.
Avrebbe dovuto essere tra noi sia il 20 marzo alla Biblioteca Vallicelliana, sia oggi, 16 maggio, all'Aleph, per i due incontri del Progetto Omaggio, dedicato quest'anno all'Ariosto.
Non ha potuto esserci. Gli auguriamo di risolvere al più presto i problemi che gli hanno impedito di venire e lo ringraziamo per l'intervento che avrebbe dovuto fare di persone e che, bisogna dirlo, è un vero godimento dello spirito. E' una vera lectio magistralis.
Tra ou-tòpos ed eu-tòpos
Note sulla ambiguità costitutiva della poesia
di Rino Malinconico
1) Tòpos
si traduce normalmente con “luogo”; ma in Aristotele acquista anche il
significato di “luogo comune”: non nel senso negativo della “falsa opinione”,
bensì proprio nel significato di “principio filosofico”, e cioè di “luogo di
questioni”, “luogo di ricerca”. In Isocrate ed Eschine si tratta direttamente
dell’“oggetto indagato”, del baricentro dell’intera orazione.
A noi è pervenuto soprattutto in questa seconda accezione. O meglio, i
secoli di incubazione della modernità, il XVI, XVII e XVIII secolo, hanno
utilizzato il lemma con riferimento all’indagine sulle possibilità dell’essere
umano di costruire se medesimo, caricandolo dello stesso valore che un porto
riveste per il marinaio al termine di una lunga navigazione. Non è più “un
luogo” qualsiasi, ma si presenta come “il luogo” del ristoro, il punto di
arrivo.
Si è trattato, in ogni caso, di un percorso faticoso, segnato dalla
inedita e improvvisa intromissione della proclitica “ou”, che spoglia il
luogo-topos di ogni connotato realistico ed impone a chi guarda di lasciarsi
alle spalle qualsivoglia intenzionalità descrittiva.
U-tòpia è così l'isola immaginata da Tommaso Moro. Egli aveva di fronte una
società propriamente “senza individui”. Il suddito era titolare di doveri, non
di diritti. Chiunque avesse affermato un qualche “diritto del suddito” avrebbe
dato prova di scarso rigore logico e di manifesta inclinazione per i paradossi
linguistici. Il suddito non aveva diritti per definizione: egli era
semplicemente un membro della realtà collettiva. Più in generale, i singoli
esseri umani non possedevano senso “per sé”; ed acquistavano valore solo nell’uomo
in grande, nella società. Ma in tale società c’era un punto fermo: il
dominio; e c’era un individuo particolare, che non era tale in senso proprio,
ma aveva l’aura del sacro: il dominus, il re. Per il resto, si trattava
di mere articolazioni della collettività: sudditi, appunto. Non “individui”.
Questo impianto, semplice ma efficace, conobbe una prima messa in crisi
teoretica tra il XVI e il XVII secolo, proprio ad opera degli scritti
“utopici”. E furono tanti i non-luoghi immaginati dal Cinquecento al
Settecento, durante la lunga fase di incubazione della modernità. Ed anzi, le
utopie geografiche arrivarono fino agli inizi dell'Ottocento, e anche più in
là. Ancora oggi ne resta l’eco col romanzo fantascientifico.
C’è tuttavia una differenza non di poco tra i secoli di incubazione
della modernità e la modernità dispiegata dei nostri giorni. Nel racconto
fantascientifico, il non-luogo è quasi sempre minaccioso, un posto tragico, con
le caratteristiche del disastro avvenuto o del disastro incombente; il
non-luogo del periodo che va dal XVI al XVIII secolo e all'avvio del XIX, è
invece un buon luogo, un luogo positivo. E’ il luogo nel quale regna la
condizione della felicità.
Antesignano di tali scritti fu dunque Utopia (più precisamente: Sul
migliore assetto dello Stato, ovvero l’isola di Utopia), romanzo filosofico
in forma di dialogo che Thomas Moro pubblicò nel 1516. Descrivendo un “nessun-luogo”, o anche un “buon-luogo” (tale
è il significato etimologico ambivalente della parola “utòpia”, che può
derivare sia da ou-tòpos che da eu-tòpos), caratterizzato dalla
dignità del lavoro e dal comunitarismo della proprietà, lo sfortunato
cancelliere inglese avvierà una riflessione politica molto diversa dal realismo
dei contemporanei Machiavelli e Botero. Non più la apologia del potere, ma l’accentuazione delle finalità;
e, dentro le finalità, una inedita torsione antropocentrica.
Sulla stessa lunghezza d’onda mossero l’italiano Tommaso Campanella, che sul trapasso del secolo stendeva in carcere la Città del sole,
gli inglesi Francis Bacon, che pubblicava nel 1627 La nuova Atlantide, e James Harrington, con la sua Oceana del 1656, ed infine il francese Vairasse
d’Alais, il quale con la Storia dei Sevarambi, popolazione della terra
australe, edito a Londra nel 1675 e poi a Parigi nel 1679, fornirà più di
un elemento alle successive utopie socialistiche di Charles Fourier.
Tutti quei testi, così come altri che si pubblicarono ancora nel
Settecento (ad esempio, L’anno 2240 di Louis
Sébastien Mercier, edito nel 1770) e nell’Ottocento (ad esempio, Viaggio in Icaria,
di Étienne Cabet, uscito a Parigi, in edizione clandestina, nel 1840), mettevano in discussione
l’esistenza di una reale giustizia nell’ordine sociale modellato dalla storia.
La critica si sviluppava non certo in nome dell’individuo; ed anzi, riguardo al
merito, restava assolutamente prevalente, nella delineazione della “società
ideale”, la dinamica della collettività sulla dinamica dell’individualità. Per
certi versi, essa veniva addirittura potenziata, tanto che si è potuto parlare
di “utopie superstataliste” con qualche ragione, dal momento che, seppure lo
Stato degli utopiani di Moro appariva “regolato così bene e da così poche leggi”, Tommaso Campanella prospettava chiaramente le confessioni in pubblico ed apriva
finanche alla riproduzione eugenetica.
E tuttavia, proprio perché ponevano comunque in discussione l’assetto
sociale effettivo che avevano di fronte, le utopie tornavano utili,
indirettamente, anche alla battaglia per l’individuo: in particolare
perché esaltavano la sua capacità razionale di costruire artificialmente una
società più giusta. L’oggetto della loro preoccupazione era la società, non chi
l’abitava. E però, nel modellarla, essi mettevano sottosopra proprio l’idea di
società che la storia e la cultura avevano imposto.
Si trattava di un vero e proprio capovolgimento della prospettiva. Nella
tradizione teoretica, ciò che mai doveva essere messo in discussione era il
primato dell’organismo sociale sui singoli suoi membri; e di conseguenza la
società si sottraeva preventivamente a qualsiasi intervento, anche solo
concettuale, degli uomini. Le sue stesse degenerazioni venivano riferite
all’archetipo ideale dello Stato, non certo agli individui che le subivano o
alle loro aspettative. La preminenza ontologica della collettività sulla
individualità costituiva il punto di partenza imprescindibile di qualunque
discorso sullo spazio pubblico.
Quella tradizione non veniva esplicitamente sconfessata neppure dagli
scritti utopici, i quali polemizzavano, di fatto, con le società storiche che
avevano di fronte. Ad esse contrapponevano o mitiche età passate - riprese
dalla cultura ebraica (il paradiso terrestre), dalla mitologia greca (l’età
dell’oro) e dalle leggende romane (il regno di Saturno) - oppure avventi
profetici e prospettive di palingenesi, sul modello della Nuova Gerusalemme
delineata nell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni. In ogni caso, bersaglio della loro critica non era certo il concetto
di società in sé. Nessuna utopia pensava minimamente di potersi spingere
al “fai ciò che vuoi” fissato da François Rabelais a motto della paradossale abbazia di Thélème, nel libro primo della sua
monumentale opera Gargantua e Pantagruel (1532 – 64). Ma le pagine di
Rabelais erano intenzionalmente comiche ed eccessive, non prospettavano
seriamente alcun modello sociale, per quanto non andrebbe misconosciuta la loro
importanza nella valorizzazione della corporeità e, per questa via, dello
stesso individuo.
2) Gli utopisti procedettero, dunque, con un dichiarato obiettivo di
polemica politica e culturale nei confronti del loro tempo. E tuttavia, proprio
questa loro polemica coinvolgeva facilmente, al di là delle intenzioni, gli
stessi fondamenti della teoria politica, nel senso che apriva una riflessione
sulla società a partire da termini assolutamente inattesi: la giustizia, la
felicità, i bisogni, i desideri.
D’altronde, l’urgenza politica divenne agli albori della vera e propria
modernità, e cioè nel XVIII secolo, più manifesta; e la stessa produzione
utopica, che pure originava dalle età precedenti, acquistò nel Settecento una
collocazione quasi “realistica”. L’esempio più clamoroso è costituito dalla
descrizione di Tahiti ad opera di Louis Antoin de Bougainville, cui succederà
un Supplément scritto da Diderot. Siamo nel 1771 per il Voyage autour
du monde, e nel 1773 per la fantasiosa aggiunta di Diderot. Entrambi gli
scritti immettono l’invenzione fantastica, tipica del genere, in una cornice
geograficamente e storicamente concreta, sia pure forzando i dati a
disposizione, e qua e là inventandoli di sana pianta. La critica sociale e la
proposta politica sembrano uscir così fuori dal sogno, perché da qualche parte
davvero esiste, o si presume che esista, un luogo d’armonia. L’u-topia si
qualifica perciò come eu-topia: non è più un “nessun luogo”, ma un “buon
luogo”, che effettivamente c’è e somiglia straordinariamente alle regole del Vrai
systeme di Dom Dechamps, uno dei testi più “scandalosi” dell’intero
Settecento, che meritoriamente il compianto storico Franco Venturi ripropose,
nel 1939, all’attenzione degli studiosi e dei lettori.
Nella Tahiti letteraria, analogamente allo “stato sociale” ipotizzato
dal monaco benedettino amico di Diderot, non si riconosce la proprietà privata
dei beni essenziali all’esistenza, vi sono assenti quasi del tutto le
costrizioni sociali e la vita procede senza imposizioni religiose. E’ dunque un
“buon luogo”, degno d’essere invidiato. Si vuole che lo stesso Voltaire ne
restasse profondamente colpito, a tal punto da proporsi di imparare il
tahitiano. In effetti, non furono pochi quelli che pensarono a questa Tahiti
edulcorata come al futuro possibile dell’Europa: a patto, beninteso, che i Lumi
avessero continuato a far bene il lavoro di rischiaramento delle coscienze,
portando gradatamente ad un nuovo paradiso terreno l’intera umanità. Magari nell’anno
2440, preconizzato dal testo utopico di Mercier.
Diventa allora chiaro
come, in questo generale slancio ottimistico, l’invadenza del dolore venisse
avvertito alla stregua di un’autentica provocazione, e come, di fronte alla
persistenza, e quasi alla prepotenza del male, si restasse intellettualmente
spiazzati. La vita, infatti, continuava ad essere segnata testardamente dalla
sofferenza; e restava terribilmente attuale l’ammonimento che Lucrezio volgeva
agli uomini miseri e ciechi agli inizi del secondo libro della sua
straordinaria opera:
O miseras hominum mentis,
o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae
quantisque periclis
degitur hoc aevi
quodcumquest!...
A fronte di una realtà che
non si modificava, la lunga la tensione della ou-topia a divenire eu-topia
si indeboliva facilmente fino a spegnersi. Nello stesso Settecento, il disastro
di Lisbona ebbe la funzione di un durissimo risveglio. Della metafora famosa di
Pascal, l’uomo come “canna pensante”, quel secolo puntava a ripigliare e valorizzare
esclusivamente l’aspetto del pensiero. Il terremoto di Lisbona del novembre
1755 riconsegnava bruscamente la figura umana alla sua condizione di fragile
canna.
Per la verità i dati che
girarono furono molto esagerati. Si ritenne che i morti assommassero a
centomila e più, ma studi più attenti calcolano le vittime in circa
quattromila. Ma al di là dei numeri è incontestabile che quel terremoto si pose
come sfida intellettuale per l’intera cultura europea. Il Settecento che
esaltava le infinite possibilità dell’uomo, e finanche il realismo delle
utopie, non poteva sfuggire al problema di dare un senso al dolore e al male.
Non a caso, subito dopo il terremoto si pubblicarono oltre un centinaio di
opuscoli che ne parlavano, o che partivano da lì per ragionare sulla condizione
umana. Il più famoso fu il Poème
sur le dèsastre de Lisbonne che
Voltaire diede alle stampe già nel 1756. Egli, che tanto aveva
sottolineato, a partire dagli anni ’30, le magnifiche sorti dell’umanità, e che
ancora vent’anni dopo Lisbona voleva imparare il thaitiano, se ne usciva con
l’affermazione che il male alberga inesorabilmente sulla terra, e gli uomini
possono solo “soffrire / sottomettersi in silenzio, adorare e morire”.
In realtà, la modernità
vera e propria, quella nostra, che parte dalla rivoluzione francese e arriva al
mondo di oggi, ha portato con sé un senso dell’utopia più come sogno impossibile che come positiva ricerca dell’altrove. Dallo spazio pubblico l’altrove felice è sospinto a migrare
verso più mansueti luoghi privati. E soprattutto verso il luogo privato per eccellenza: la poesia, il viaggio solitario
dell’anima, con la sua funzione di catarsi e consolazione.
3) In una struggente, notissima poesia dedicata alla natìa terra di
Romagna, Giovanni Pascoli riprendeva da par suo taluni eroi dell’Ariosto e la
straordinaria visione dell'Ippogrifo in volo:
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava
con Guidon Selvaggio
e con Astolfo;
o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.
E mentre aereo
mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone…
E’ notevole che alle immaginifiche ed aeree figure, il poeta facesse
seguire, subito dopo, la figura storica e realistica di Napoleone. Ma non c’è
alcuna contraddizione nell’accostamento: siamo di fronte, in effetti,
esattamente alla forza smisurata dei topoi. Dei topoi divenuti stabilmente ou-tòpoi
rispetto al mondo ed eu-tòpoi
rispetto all’io.
Al centro della scena non sono né i due cugini cavalieri, Guidone ed
Astolfo, e neppure l’imperatore dei francesi, bensì la specifica attività umana
del fantasticare. I personaggi dell’Ariosto, così come il condottiero
universalmente riconosciuto tra i maggiori protagonisti della concreta storia
umana (“la storia a cavallo” lo aveva definito Hegel), non valgono affatto “in
sé”, per le loro vicende narrate o accadute; si presentano, invece, come puri
“luoghi argomentativi”, come un unicum del pensiero, quasi un omogeneo
tracciato per lo slancio della mente. E il tutt’uno di finzione e realtà
corrisponde linearmente all’impegno prometeico di un adulto-bambino, di ogni
adulto e di ogni bambino, e non solo del poeta Pascoli, allorché costruisce,
con tutti i materiali di cui dispone, il proprio universo di esperienze e memorie.
Si tratta di un vero e proprio volo smisurato dell’anima verso un altrove assoluto, che assume esattamente
le forme eroiche del tradizionale “poema”, nel quale tutto si intreccia e si
confonde e diventa spazio cosmico senza più limiti; e Pascoli può allora
proseguire, immettendo le immagini fantastiche e storiche in un caleidoscopio
che comprende anche la natura e tutta la memoria possibile degli esseri umani:
udia tra i
fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e
interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.
In Pascoli l’altrove si configura esplicitamente come dimensione
onirica; o meglio, come ricordo della dimensione onirica e della realtà
fiabesca che caratterizza l'esperienza del fanciullino, inteso non tanto in
senso cronologico ma proprio nel senso della relazione non conoscitiva, non
logica bensì analogica, col mondo. Il mondo si rivela un tutt’uno palpitante che restituisce eco e risonanze capaci di
com/muovere, far muovere assieme, il presente e il passato.
E’ dunque una lunga traiettoria, questa della ricerca dell'altrove, di un luogo diverso dai luoghi
consueti che conosciamo e pratichiamo nell'andamento logico e cronologico della
nostra esistenza. E tra le scaturigini di un tale faticoso cammino si situa con
tutta evidenza proprio la poesia.
4) Va da sè che si annida sempre una grande ambiguità nell'altrove
della poesia. Il viaggio dell'anima - del poeta non meno di colui che
legge la sua poesia - non è un viaggio reale. La materialità dell'esistenza non
viene modificata in alcun punto. E tuttavia quel viaggio è anche, a suo modo,
“reale”, avviene veramente nell’animo di chi scrive e, con intensità diversa,
di chi legge. Si è davvero trasportati nei “luoghi” emozionanti e meravigliosi
dettati dalla fantasia, dagli impulsi e dai sentimenti. Siamo, perciò, ad una
vera e propria “esperienza” esistenziale, benché la nostra specifica
collocazione nel mondo non ne resterà segnata in modo diretto. Da questo punto
di vista, si potrebbe dire, per la poesia, qualcosa di analogo a ciò che il
giovane Marx diceva a proposito delle religioni, indicandole come “il sospiro
della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di
situazioni in cui lo spirito è assente”, e concludendo alla fine con la
lapidaria affermazione che fossero perciò “l'oppio dei popoli”.
C'è però una differenza importante: le religioni si presentano come riti
collettivi; la poesia si definisce sempre come vicenda privata. I lettori
possono essere milioni, ma ciascuno sarà in “rapporto singolare” con la
comunicazione artistica che ha di fronte. Inoltre, ancor più delle religioni,
la poesia nasce da un'esigenza intima di riscatto, di sollevazione, per molti
aspetti analoga a quella che lo stesso Marx riconosceva anche alla religione,
parlando del sospiro della creatura oppressa e della voglia di sentimento nel
contesto di un mondo senza cuore. E però l’esigenza di andare oltre-il-mondo-che-c’è diventa
addirittura assoluta nella poesia: per il poeta, infatti, ad essere “senza
cuore” sarà proprio la realtà in quanto tale, considerata sì dall’angolazione
delle sue personali vicissitudini, ma priva del soffio vitale dello “spirito”
anche indipendentemente dalle vicende che lo coinvolgono. La poesia rappresenta
sempre, persino quando si svolge in forma di lamento, il desiderio del qualcosa-che-potrebbe-esserci
al posto di ciò che c'è. Vale per tutte le latitudini della poesia, anche
quando nasce da un'intenzione giocosa.
Si consideri, ad esempio, la poesia cavalleresca del Cinquecento, che
programmaticamente mira al “diletto”: anche lì c'è una speranza
all'opera.
5) Ludovico Ariosto è stato probabilmente il più fantasioso dei nostri
autori. L’Orlando furioso è una briosa cavalcata di figure, vicende,
spostamenti, scambi di parti e di ruoli. Un miscuglio di registri, i più vari:
dalla trovata sfacciatamente irrealistica all'invettiva sui vizi del proprio
tempo, dalle figure di maniera alla caratterizzazione minuziosa di personaggi e
sentimenti, dal piacere delle allitterazioni e della rima alla sospensione
dell'elegia e al verso malinconico. C'è davvero di tutto in Ariosto, una
commedia umana tirata fino allo spasimo dell'invenzione fantastica.
Il poeta, come è noto, fu
giudicato piuttosto severamente dal De Sanctis, che lo contrappose
esplicitamente al Machiavelli. Ariosto è l’esempio tipico, per De Sanctis, del
letterato “più artista che poeta”, incapace di misurarsi coi contenuti etici;
mentre Machiavelli è visto come una figura pienamente interna alla funzione
civile della cultura:
“L’Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice
aspetto, positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici
e morali, un mondo puro dell’arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo
dell’immaginazione l’ideale della forma… Il Machiavelli è la coscienza e il
pensiero del secolo, la società che guarda in sé e s’interroga, e si conosce.”
De Sanctiis aveva probabilmente letto, con qualche fraintendimento, una
osservazione acuta di Hegel, contenuta nei suoi appunti noti come Estetica,
a proposito della triade Ariosto, Cervantes, Shakespeare e della “dissoluzione
della cavalleria”. Hegel ne parlava certamente nel senso di una trasmutazione
dei valori dall'etica all'estetica; e però poi aggiungeva:
“In Ariosto dilettano specialmente le
infinite complicazioni dei destini e dei fini, l'intreccio favoloso di rapporti
fantastici e di situazioni assurde, con cui il poeta gioca avventurosamente
fino alla leggerezza. Non vi è chiara e aperta follia e stravaganza che i suoi
eroi non prendano sul serio... Ma accanto alla indifferenza per il modo come le
situazioni si realizzano, introducono straordinari intrecci e conflitti, hanno
inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano e infine si
risolvono inaspettatamente, e accanto anche alla trattazione comica della
cavalleria, Ariosto sa tuttavia parimenti riaffermare e mettere in rilievo quel
che di nobile e grande vi è in essa, nel coraggio, nell'amore e nell'onore.”
Ma non è soltanto in relazione agli ideali etici della cavalleria e
ancor più dell’umanesimo, che è possibile accorgersi di uno sguardo
inaspettatamente serio sul mondo. Anzi, in filigrana con la medesima invenzione
fantastica, Ariosto dà spesso prova di una robusta consapevolezza del “senso
del vivere”, almeno per come tale senso veniva elaborato nel Cinquecento. Così,
proprio perché è un autore legato in modo indissolubile alla “logica del
meraviglioso”, ed anzi è universalmente considerato tra i più propensi a
voltare le spalle agli affanni della vita reale, se rinvenissimo anche nei suoi
versi una apertura “positivamente storica”, potremmo più agevolmente mettere a
fuoco la funzione della poesia-in-quanto-tale nella costruzione del senso umano dell'esistere.
6) Tutto sommato, non si tratta di una ricerca difficile. Nella terza
delle sue sette satire, normalmente ricordata solo per l’elogio della vita
appartata e per la diffidenza verso il milieu cortigiano, il poeta quasi ci
svela un suo “amore segreto”. Lo fa allorché argutamente ricorda come anche da
un angusto studiolo ci si possa comodamente spingere in avanti e guardare
l'intero mondo:
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
Italia, e un mare e l’altro che la bagna.
Questo mi basta; il resto de la terra,
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;
e tutto il mar, senza far voti quando
lampeggi il ciel, sicuro in su le carte
verrò, più che sui legni, volteggiando.
Ma nello stesso Orlando incontreremo lunghissime digressioni
legate al volo di Ruggiero sull'Ippogrifo, un volo fatto proprio per conoscere
il mondo e mescolarsi agli uomini di tutte le latitudini: dalle terre del Nord
ai deserti della Nubia, da Damasco alla Spagna, fino al viaggio famoso sulla Luna,
il luogo ove si depositano le tante cose perdute dagli uomini nel corso della
loro esistenza biografica, storica e culturale. Ed è proprio la metafora
spiazzante della Luna a consegnarci platealmente la fondamentale funzione,
direi “filosofica”, della poesia: niente degli uomini va davvero perduto; e
soprattutto non va perduta la loro voglia di speranza.
La storia, in sostanza, può fallire, e il mondo a misura d'essere
umano può tardare lungamente a venire. E non è detto che venga davvero.
Anzi, la storia fornisce sempre buonissime ragioni per sbeffeggiare la speranza
e ricacciarla indietro. Ma proprio in tali frangenti, la poesia rivela,
pressoché spontaneamente, la sua insostituibile funzione civile: anche nelle
forme del meraviglioso, essa rimane sempre il tabernacolo votivo che
conserva il lume della speranza. E’ il luogo dove la ou-topia diviene, con un atto di ferrea volontà e di spudoratissimo
arbitrio, una eu-topia, e ciò senza
mai perdere il carattere propriamente flessibile e creativo di un non-luogo. Ma se c'è davvero un luogo di
tal fatta, un non-luogo che diventa
un buon-luogo esattamente nella mente
degli esseri umani, ciò vuol dire che non tutto sarà perduto, e che il destino
medesimo potrà essere vinto.
La poesia è dunque ambigua, ma costitutivamente ambigua: intrecciata
inestricabilmente alla voglia di fuga e rifugio - e dunque con una funzione
senz'altro regressiva sul piano storico, del tutto simile agli esiti “oppiacei”
delle religioni -, essa contiene nondimeno dentro di sé, proprio in naturale
simbiosi con l’altra, un’altissima apertura civile. La poesia, infatti, è
anche, e soprattutto, educazione continua
a sperare, a non appagarsi di quello che ci sta intorno. Indipendentemente
dai temi e dalle forme che la esprimono, essa spinge continuamente l'intelletto
e il cuore in direzione dell'ignoto,
del desiderio e della speranza: che sono poi, come ci insegna
Ernst Bloch, i territori decisivi perché il nostro stesso esistere acquisti un
senso e valga qualcosa.
Napoli, maggio 2014